giovedì 5 luglio 2012

La Poderosa


Una volta, mentre parlavo con Folco Terzani, mi diceva che secondo lui ai bambini piace giocare con le macchinette e i soldatini perché è una sorta di memoria ancestrale di quando nelle caverne giocavamo con i topolini, le ghiande e cose simili. Bella teoria, a pensarci. Allora forse, seguendo questa idea della memoria ancestrale, ci piace andare in moto per via di quando penzolavamo da un albero all'altro.

Gli evoluzionisti mi perdonino per la banalità della spiegazione, i creazionisti mi perdonino per aver pensato ad un antenato primate e ai pastafariani basti un "ramen". È da quando ho 12 anni che l'idea di avere una moto mi fa sognare. Ancora all'asilo, andai da mia madre e le dissi "voglio la moto maròn col casco fuchias". Non ero esperto di abbinamenti, ma avevo le idee chiare come il cielo d'estate, amici di Finzioni. C'è poco da fare: la motocicletta è la materializzazione del vento, la meccanificazione della libertà del movimento, se mi passate l'ossimoro.

Qualche estate più tardi ero costretto  a letto da una bruttissima influenza intestinale, secondo alcuni, secondo altri era un blocco renale dovuto ad un’insolazione. Fatto sta che un mio caro amico, Michele Danesi, penetrò nella malsana atmosfera della mia casetta con un DVD, I diari della motocicletta. Non c’è modo migliore di sentirsi liberi, se non guardare quel film. Incuriosito, appena guarii, comprai il libro Latinoamericana, un diario per un viaggio in motocicletta (Universale Economica Feltrinelli, 135 pagine) Scrive Che Guevara, nella prefazione:

Il personaggio che ha scritto questi appunti è morto quando è tornato a posarei piedi sulla terra dell’Argentina, e colui che li riordina e li ripulisce, io, non sono più io; per lo meno, non si tratta dello stesso io interiore.

Attenzione, potrebbe essere il solito discorso sull’importanza del viaggio, e il valore del vero viaggio, quello interiore. Sì, ma non solo. Una moto, La Poderosa, una Norton 500 M 18 ha trasportato le mitiche natiche di Ernesto Guevara e del mai abbastanza compianto Alberto Granado attraverso l’Argentina e il Cile, prima di abbandonarli. Hanno provato a ripararla diverse volte ma ad un certo punto un meccanico andino gli ha chiarito le idee “vi conviene venderla come ferro vecchio”.

La Poderosa non è una moto comoda, soprattutto se si è in due e con dei bagagli, lo sterzo non è molto ampio ed quella che usarono era 39 (mentre il loro viaggio inizia il 29 dicembre del 52). Ma negli appunti di viaggio non mancano i riferimenti al movimento del polso, al rapporto tra il piede e i pedali, la leva del cambio e quella del freno. La Poderosa è il terzo compagno di viaggio, ma non solo, è una straordinaria metafora del cambiamento.

Si potrebbe pensare alla moto come ad un traghetto, o alla della zattera di Caronte, che trasporta l’anima di Ernesto da studente di medicina a giovane rivoluzionario. Non è un’idea sbagliata (principalmente perché non c’è un’interpretazione più giusta delle altre) ma credo che si possa vedere la Norton 500 M 18 più come una bici con le rotelline, quelle che abbiamo usato per imparare a pedalare da soli. È utile e funziona fino ad un certo punto, però poi arriva il momento di crescere, di cambiare.

Mano a mano che Ernesto ed Alberto viaggiano, aumenta la loro consapevolezza del Sudamerica. L’ingiustizia sociale, l’ineguaglianza tra indi e coloni, la condizione precaria dei lavoratori nelle miniere peruviane e dei campesiños, le colonie dei lebbrosi sono gli esempi più lampanti. Ecco, la Poderosa ad un certo punto si guasta definitivamente, non la si può più riparare, e io credo che in quel momento il Che abbia pensato: ad un certo punto non c’è più niente da riparare nella società, serve una rivoluzione.


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